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Ekoiné: più di un pub, un ri-pub!

  • Testo: Valeria Nitti Foto: Emanuela Esposito
  • 12 mar 2015
  • Tempo di lettura: 6 min


Quando si chiude la porta di una casa, che sia la tua o quella delle tue vicine, ci si ritrova per le vie di questo quartiere, Picone, dove è così semplice entrare in luoghi accoglienti, in realtà che appaiono familiari, anche se non lo sono. Attraversi una strada, svolti un angolo e in lontananza, in Via De Ferraris 49, scorgi due lanterne appese ad una pensilina sporgente su un marciapiede ampio, al riparo dei tavolini in ferro con sgabelli alti. Avvicinandosi tra quei tavoli si nota un comodino in legno e un grande posacenere di ferro, è un pub, o meglio un ri-pub come si legge sull’insegna che è un biglietto da visita, una perfetta presentazione di quello che ci sarà dietro la porta in legno di un locale chiamato ekoiné.


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All’interno l’atmosfera è calda, gli occhi sono catturati dal bancone e da chi si muove dietro di esso, in quei pochi metri, abitandolo, svanendo dietro porte e ricomparendo sorridente. Si ha l’impressione di essere in un loft, un’ambiente unico, metà salotto, metà camera da letto, un incontro di diverse identità con una sola funzionalità: mettere l’avventore a proprio agio. C’è chi è poggiato al bancone, chi è seduto su morbide panchette imbottite, chi su bellissime sedie dipinte.

Ho troppe cose da chiedere, troppe cose da vedere e mentre mi avvicino all’oste il mio sguardo si direziona a sinistra dove il locale continua lungo le assi del pavimento in legno grezzo, i soffitti a cassettoni si trasformano in scale a pioli colorate e lì sù un contrabbasso, bottiglie che pendono dal cielo contenenti minuscole lampadine, ruote a sorreggere mensole sulle pareti dove sono appesi quadri o scaffali di libri.


Fabio, con la sua barba rossiccia, mi racconta di come è nata questa comunità il cui senso è tutto racchiuso in quel nome, infatti koinè in greco antico è la denominazione precisa del dialetto caratterizzante la terza tappa della storia della lingua greca. Un idioma formatosi conseguentemente alle conquiste di Alessandro Magno quando, nei nuovi territori, si contretizzò la necessità di un linguaggio comunemente accettato allo scopo di creare una nuova e coesa identità. Il termine che definiva questo linguaggio ha poi assunto l’accezione generalizzata di visione comunemente accettata, linguaggio unico con lo scopo di eliminare le disuguaglianze etniche, linguistiche e sociali.

Il significato del suffisso “e” che precede la parola koinè non mi è chiaro e quando lo chiedo Fabio mi dice che potrebbe essere l’articolo aggiungendo:


“Il nome lo ha proposto un socio che non c’è più, a me piaceva molto, ne condivido il significato. Anche se la comunità iniziale è cambiata rimane sempre la sua essenza, è una comunità che si ricicla continuamente, come tutto al mondo, è per questo che mi piace ed è per questo che lo definiamo un ri-pub.”


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Deduco immediatamente che questo posto sia un collage di menti, idee, linguaggi, storie, è come il comò di casa della nonna dove cornici diverse accolgono foto di nipoti, figli, genitori di tutte le epoche, alcune in bianco e nero, altre rossastre, altre nitidissime ed enormi, bomboniere con ancora i confetti attaccati, boccette di profumo e spazzole d’argento, tutto con un’armonia che solo la storia e la vita possono dare.

Confesso queste sensazioni a Fabio e scorgo il suo sorriso tra la mensola dei bicchieri e la spina della birra:


“È proprio la mia idea iniziale, la sensazione di essere accolti in una casa, io voglio che la gente qui si senta a proprio agio, se mi dici che si avverte vuol dire che ce l’ho fatta.”


Accogliente è il termine giusto, la musica si amalgama al brusio della gente e mentre sono in procinto di fargli un’altra domanda sento il tintinnio di una campanella, una piccolissima campanella suonata da una donnina con un turbante colorato in testa che sbuca da una porticina dietro il bancone, è Daniela che chiama a gran voce il nome di chi ha ordinato il bel panino farcito e fragrante che tiene posato su un piatto di ceramica colorato. All’ekoiné non c’è servizio al tavolo, chi ha fame sceglie cosa vuole dal menù e lo chiede al banco, quando è pronto va semplicemente a prenderlo, come del resto a casa quando qualcuno ti prepara uno spuntino da mangiare sul divano.

Osservo questi passaggi, sorrido, guardo il mio interlocutore e gli dico che sembra proprio di essere a casa, un enorme complimento per lui:


“Perchè per me la casa è quel posto dove ti senti a tuo agio, dove non hai paura di esprimerti, dove non hai timore di andare perchè sai che c’è qualcuno che conosci, qui ci vieni anche da solo, anche se non sei sicuro di incontrare i tuoi amici perchè sai che c’è sempre qualcuno con cui chiacchierare bevendo qualcosa.”


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Mi sembra una bella risposta ed una bella intenzione, ma ancora più bello è il fatto che avvenga davvero, i ragazzi al bar escono dal banco per salutare le persone, passano a raccogliere i bicchieri e si fermano a scherzare con gli “avventori”, termine molto più adatto di clienti, perchè è un posto in cui passi per caso, mentre cammini, mentri segui una direzione da percorrere, come durante un viaggio, lo scorgi, ci entri e ti fermi, dimenticandoti la meta prefissata.

Gli chiedo se sono tutti loro amici da tempo o lo sono diventati, se è un posto frequentato da una clientela abituale o se quella sensazione di intimità è una costante. Fabio mi spiega che non è bravo con le parole, anche se a me non sembra e comunque le sue espressioni facciali parlano da sole:


“Intimo forse è un concetto sbagliato, non vorrei che l’ekoinè fosse intimo perchè implica l’esclusione di qualcuno e io non vorrei mai che questo avvenga, questa è una casa dalle porte aperte, difficilmente qualcuno non ritorna in un posto che lo ospita piacevolmente e qui tutti quelli che ritornano lasciano qualcosa di sé.”


I quadri appesi alle pareti li ha regalati Oreste, il contrabbasso sospeso sul soffitto un musicista di passaggio, le sedie sono state dipinte durante la chiusura estiva, quando Fabio e la sua compagna Monica hanno ampliato il locale e chiunque passava dava volentieri una mano tra una birra e un pezzo di focaccia.

Le sedie coloratissime all’interno dell’ekoiné sono frutto della fantasia e della creatività di mani e menti più disparate, così come i disegni appesi sulla parete dietro il bancone, le scoperte musicali adesso in playlist, le tipologie di piatti nel menù e qualsiasi altro piccolo oggetto che da vita a questo puzzle di individualità.


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È la bacheca appesa nella cameretta dei ragazzi, fatta di foto, cartoline, biglietti di concerti, sottobicchieri di pub stranieri, è un posto in cui la comunità si avverte anche nel menù che varia dal toast più semplice a piatti vegani e vegetariani, dove se vuoi concederti qualcosa di dolce basta spalmare della cioccolata sul pane caldo o al massimo su una piadina. Sembra che tutto sia frutto di un’idea ben precisa ma Fabio, onestamente, mi confessa il motivo che lo ha spinto ad intraprendere questa avventura:


“L’azienda per cui lavoravo è fallita e ha chiuso. Sono qui per caso, una proposta, è stato il destino. L’ekoiné per me è un viaggio, nè tappa nè meta, è una parte del mio viaggio che cambierei solo per scappare all’estero e aprire un chioschetto sulla spiaggia, lontano dalla burocrazia italiana che comunque ci limita.”


Nel frattempo sto bevendo una buona birra bionda e mangio delle mandorle poggiata al bancone, Emanuela scatta foto e chiacchiera, assaggia la mia birra, entra gente e domandano perchè ci sia una ragazza in piedi su un tavolo con quella grande macchina fotografica, Fabio ironizza sulla sua fama che ha portato all’ekoiné dei “giornalisti”, ridiamo tutti insieme e siamo già un gruppo di persone di età diverse che stanno chiacchierando, senza neanche essersi accorti come. Le domande da fare passano in secondo piano, l’ambiente è più caldo e mi tolgo la giacca, la appoggio su una sedia senza timore che dia fastidio a qualcuno perchè, nel caso, verrà semplicemente spostata e, mentre la campanella continua a tintennare armonizzandosi con la musica e il vocio, neanche ci accorgiamo dell’orario che si è fatto, Fabio si avvicina a me e dice:


“Sono sempre stato molto pratico e poco filosofo, sono stato poco loquace ma a me piace ascoltare, non parlare.”


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